Domande Frequenti (Faq)
Cosa prevedono gli ILG?
Gli ILG prevedono il monitoraggio in continuo integrato della sismicità, delle deformazioni del suolo e delle pressioni di poro attraverso l’utilizzo delle migliori tecnologie per raggiungere le migliori prestazioni della rete.
Con quali modalità sono resi noti i risultati del monitoraggio?
Gli ILG raccomandano la divulgazione delle informazioni attraverso i siti istituzionali e della Struttura Preposta al Monitoraggio (SPM) e attraverso la trasmissione periodica da parte della SPM di rapporti tecnici delle attività di monitoraggio.
Come sono finanziati i monitoraggi?
Al fine di condurre le attività gli ILG raccomandano l’istituzione di un fondo presso il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. Per fare questo è necessario che una Legge istituisca uno specifico capitolo di spesa. Nelle more dell’Istituzione del Fondo il Mise individua in via transitoria le modalità di finanziamento. In particolare l’Amministrazione può avvalersi degli enti territoriali per l’istituzione di un capitolato di spesa relativo all’applicazione dei monitoraggi ai sensi degli ILG. Le modalità di istituzione e funzionamento del fondo saranno stabiliti in tal caso di comune accordo tra le Parti e tramite accordo di collaborazione.
Come viene designata la SPM e qual è il suo mandato?
Gli ILG prevedono che il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica individui la Struttura Preposta al Monitoraggio (SPM) che si ponga come ente terzo tra l’Amministrazione e il concessionario garantendo la qualità del monitoraggio. La SPM è costituita da una o più Università o enti di ricerca (eventualmente in consorzio fra loro) di comprovata competenza tecnica.
In una istanza di coltivazione in cui sono previste infrastrutture come ad esempio un gasdotto, qualora dovesse divenire concessione, la realizzazione del gasdotto baypasserebbe le pianificazioni territoriali?
Presumendo che si tratti di una istanza di concessione di coltivazione per idrocarburi in terraferma, occorre premettere che una istanza di concessione viene presentata a seguito di ritrovamento di idrocarburi, in regime di permesso di ricerca, e dopo la definizione di un giacimento tecnicamente ed economicamente coltivabile. Si richiama che il giacimento si configura come patrimonio indisponibile dello stato ed in quanto tale ai sensi della normativa riveste carattere di pubblica utilità.
La concessione di coltivazione, oltre alle valutazioni tecniche minerarie di fattibilità, viene rilasciata a seguito di Intesa regionale e Valutazione di impatto ambientale sul programma dei lavori da realizzarsi. Nell’ambito di tali procedure (Intesa e VIA) sono valutate le interferenze sulle pianificazioni territoriali.
I BOP (Blowout Preventer) costruiti secondo le norme API, ma privi di marcatura CE possono essere utilizzati su territorio italiano e comunque all’interno della comunità europea?
Con il Decreto Direttoriale 29 novembre 2004 sono state riconosciute idonee, ai sensi dell’articolo 30, comma 4, del Decreto Legislativo 25 novembre 1996 n. 624, le norme emanate dell’American Petroleum Institute-API. In particolare per i sistemi di controllo delle eruzioni del pozzo (BOP) e loro unità di controllo le norme API di riferimento sono 6A, 16 A e 16D.
Il Decreto Ministeriale 25 marzo 2015 è stato abrogato?
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170 del 2017, ha dichiarato l’incostituzionalità del comma 7 dell’articolo 38 del citato d.l., nella parte in cui non prevede un adeguato coinvolgimento delle Regioni nel procedimento finalizzato all’adozione del decreto del Ministro dello sviluppo economico con cui sono stabilite le modalità di conferimento del “titolo concessorio unico”, nonché le modalità di esercizio delle relative attività.
Di conseguenza, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 198 del 2017, nell’ambito del conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Abruzzo, ha annullato, per l’effetto della precedente, il Decreto Ministeriale 25 marzo 2015, recante «Aggiornamento del disciplinare tipo in attuazione dell’articolo 38 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164», che comprendeva le modalità di rilascio del “titolo concessorio unico”, lasciando inalterate le modalità relative alle altre tipologie di titoli minerari vigenti.
Il citato DM del 2015, nel frattempo era stato sostituito dal Decreto Ministeriale 7 dicembre 2016 predisposto a seguito della riorganizzazione interna al Ministero delle funzioni relative alle attività nel settore idrocarburi precedentemente assegnate ad una sola Direzione: DGRIME, prevedendo l’attribuzione alla DGS-UNMIG delle competenze relative alla gestione tecnica, al controllo, alla vigilanza e alla sicurezza anche ambientale delle operazioni e assegnando alla DGSAIE le competenze relative al rilascio dei permessi di prospezione, di ricerca e delle concessioni di coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, ai relativi procedimenti espropriativi, nonché alla gestione delle relative entrate al bilancio dello Stato e degli Enti territoriali.
Pertanto le sentenze 170 e 198/2017 della suprema Corte hanno determinato inevitabilmente degli effetti giuridici sul “Disciplinare” di cui al DM 7 dicembre 2016 in relazione alle parti relative al titolo concessorio unico. Così che il Ministero dello sviluppo economico ha ritenuto opportuno ottemperare con il Decreto Ministeriale 9 agosto 2017 a quanto disposto dalla Corte Costituzionale, operando l’adeguamento del disciplinare tipo di cui al DM 7 dicembre 2016, per tenere conto di quanto sancito con la sentenza costituzionale n. 170 del 2017.
Giova precisare che il DM 9 agosto 2017 si limita a novellare il DM 7 dicembre 2016, espungendo gli articoli sul titolo unico e rimandando all’intesa con le Regioni, le modalità di conferimento del titolo concessorio unico di cui al comma 7 dell’articolo 38 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133.
Anche il DM 9 agosto 2017 è stato oggetto di un conflitto di attribuzione promosso sempre dalla Regione Abruzzo, per il quale la Corte costituzionale con sentenza 42/2019, depositata l’8 marzo 2019, ha dichiarato detto conflitto di attribuzioni non fondato, in quanto “spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dello sviluppo economico adottare il decreto 9 agosto 2017.
Infine per gli aspetti operativi la Direzione Generale UNMIG ha specificato con Circolare 9 maggio 2018 che il decreto direttoriale del 15 luglio 2015 che disciplina in dettaglio le attività e le azioni amministrative attinenti alle attività è applicabile per tutto quanto non fa riferimento al titolo concessorio unico.
Quali sono le disposizioni legislative che prevedono la riservatezza di alcune informazioni relative ai titoli minerari vigenti come ad esempio i dati sui pozzi attivi?
L’articolo 39, comma 1 della Legge 21 luglio 1967, n. 613 dispone che: “I dati e le notizie di carattere tecnico ed economico relativi alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione, forniti all’Amministrazione dai titolari dei permessi e concessioni e che rivestono carattere di riservatezza, quali i rilievi geofisici con le interpretazioni relative, i profili geologici dei pozzi con le diagrafie, le correlazioni relative, l’entità delle riserve, non possono essere resi pubblici senza il consenso scritto degli interessati.”
Il successivo comma 2 dispone che: “I dati e le notizie di cui sopra, relativi a permessi o concessioni revocati, scaduti o rinunciati, o concernenti aree restituite in base agli articoli 24, 25 e 36, possono essere resi pubblici dall’Amministrazione soltanto dopo due anni dalla cessazione dei rispettivi titoli.”
Il termine di due anni dalla cessazione del titolo è stato ridotto ad uno dall’articolo 16, comma 4 del Decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625.
I pozzi attivi sono tutti ubicati in titoli minerari vigenti e quindi le loro informazioni di dettaglio non possono essere rese pubbliche.
Le informazioni sui titoli minerari cessati e quindi anche sui pozzi chiusi minerariamente, sono rese disponibili sul sito del Progetto ViDEPI.
Qual’è la procedura che le aziende devono seguire per poter avviare attività di estrattive nel territorio italiano? Che ruolo ha il ministero dello sviluppo economico in questo iter?
Le attività estrattive possono essere avviate solo a seguito del rilascio di una concessione di coltivazione conferita, a seguito dell’esito positivo delle attività di ricerca di idrocarburi, con decreto del Ministero dello sviluppo economico d’intesa, per le concessioni in terraferma, con la Regione interessata previa acquisizione del parere favorevole di compatibilità ambientale da parte dell’Amministrazione competente.
Qual’è la situazione italiana: il numero di pozzi produttivi; quanto la produzione nostrana contribuisce a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese?
In Italia sono presenti più di 886 pozzi produttivi (525 onshore e 361 offshore). Sul totale, 701 pozzi producono gas mentre i restanti 185 sono mineralizzati ad olio. La produzione di gas annuale ammonta complessivamente a circa 7,29 GSm3 di gas e 5,75 Mton di olio.
Le produzioni di gas ed olio contribuiscono rispettivamente per circa il 10% e circa il 7% al fabbisogno energetico nazionale.
Questi dati riferiti all’anno 2014, come i dati di dettaglio relativi alla produzione, ai titoli rilasciati, alle domande di permesso di ricerca e di concessione di coltivazione nonché le informazioni su tutte le attività svolte della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico, sono presenti sul sito della direzione all’indirizzo: http://unmig.mise.gov.it.
Rilascio del permesso di ricerca. Chi decide e in base a quali criteri?
Come vengono coinvolte le comunità locali?
Il permesso di ricerca è un titolo esclusivo, rilasciato su richiesta della compagnia petrolifera, che presenta il programma di ricerca che intende sviluppare e gli studi geologici e geofisici che motivano la scelta dell’area sulla base della possibile presenza di idrocarburi liquidi/gassosi. Sulla stessa area possono essere presentate istanze in concorrenza da parte di altri operatori, per tre mesi dalla pubblicazione della prima domanda sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.
La normativa di riferimento per il rilascio del permesso di ricerca è l’art. 8, comma 1, del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 484; l’art. 6, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 9, nonché, per la terraferma, dell’art. 1, comma 7, lettera n) della legge 20 agosto 2004, n. 239.
Il permesso di ricerca è rilasciato a seguito di un procedimento unico (della durata massima di 180 giorni), disciplinato dall’art. 1 commi 77 e 79 della legge 23 agosto 2004, n. 239 e successive modifiche.
Il progetto viene selezionato dal Ministero dello sviluppo economico, sentito il parere di un organo consultivo, la CIRM, nell’ambito della quale sono rappresentate le Amministrazioni statali competenti (Ministero dello sviluppo economico, Ministero dell’ambiente, Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, ISPRA, Avvocatura di Stato) nonché i rappresentanti regionali. Per i permessi offshore sono coinvolti anche il Ministero dei Trasporti e quello delle Politiche Agricole e Forestali.
I progetti sono sottoposti alla procedura di assoggettabilità ambientale e/o all’espressione del giudizio di compatibilità ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente o della Regione interessata. I permessi in terraferma vengono rilasciati dal Ministero d’intesa con le regioni interessate.
Per quanto concerne il coinvolgimento delle comunità locali, esso è garantito dal ruolo svolto nell’ambito del procedimento dalle amministrazioni comunali e provinciali interessate.
Ci sono particolari prescrizioni che un’azienda deve rispettare nell’esercizio di una concessione di coltivazione? Quali sono le sanzioni per il mancato rispetto di questi obblighi?
La concessione di coltivazione viene conferita al titolare del permesso di ricerca che abbia rinvenuto idrocarburi liquidi e gassosi e che dimostri di avere adeguati requisiti economici e tecnici che permettano il “buon governo” del giacimento.
Il Decreto con il quale è conferita la concessione di coltivazione contiene tutte le prescrizioni e i vincoli stabiliti dagli Enti che hanno esaminato il progetto nel corso del procedimento amministrativo del quale il decreto è l’ultimo tassello (tra gli Enti ricordiamo, il Ministero dell’Ambiente e il Ministero dei beni culturali o la Regione per gli aspetti di compatibilità ambientale).
Come viene individuata l’area destinata alla costruzione degli impianti?
Se in quest’area rientrano delle proprietà private, cosa accade?
Chi gestisce le trattative?
L’area destinata alla costruzione degli impianti onshore viene individuata sulla base di valutazioni tecniche ed economiche in funzione della localizzazione del giacimento da coltivare; vengono valutate: la distanza dei pozzi dall’area dell’impianto, la morfologia del territorio, l’assetto idrogeologico del territorio.
Da sottolineare che le istituzioni preposte al rilascio delle autorizzazioni ambientali/paesaggistiche valutano la collocazione scelta e possono impartire prescrizioni che garantiscano che l’area individuata sia perfettamente idonea all’uso o richiedere particolari opere di mitigazione paesaggistica (piantumazioni).
Per quanto concerne l’aspetto patrimoniale, le società petrolifere che intendono utilizzare determinate aree per la costruzione degli impianti le acquisiscono a seguito di accordi con i proprietari privati previa corresponsione di adeguati indennizzi. Comunque le opere sono considerate di pubblica utilità e quindi, in caso di mancato accordo, può essere avviata la procedura di esproprio.
C’è una distanza limite in cui gli stabilimenti devono essere posizionati rispetto ai centri abitati?
Prima di costruire un impianto la società concessionaria esegue valutazioni di rischio finalizzate a verificare l’impatto di eventuali incidenti sul territorio circostante.
Tali valutazioni sono condivise con gli Enti deputati al rilascio delle autorizzazioni alla costruzione che impongono determinate prescrizioni in ordine alla distanza minima degli impianti dai luoghi circostanti.
Caso più articolato quello degli impianti rientranti nella normativa “Seveso Ter” e dunque considerati a rischio di incidente rilevante. In questo caso le verifiche e le eventuali prescrizioni in ordine alla distanza degli impianti dai luoghi provengono dal Comitato Tecnico Regionale (CTR) composto da organi tecnici fra cui Regione, Vigili del Fuoco, ARPA, Comuni e Sezioni UNMIG competenti.
Cosa succede a un pozzo quando finisce la produzione?
I pozzi minerari sono strutture tramite le quali è possibile l’estrazione di idrocarburi (olio e gas naturale) dal sottosuolo. Sono costituiti da una parte sotterranea, che può raggiungere profondità variabili in funzione della posizione del giacimento, caratterizzata da una serie telescopica di tubi, e da una parte superficiale, detta testa pozzo, costituita da un insieme di valvole che isolano l’interno del pozzo dall’ambiente esterno impedendo la fuoriuscita di fluidi di produzione. Il pozzo è completamente isolato dagli strati di terreno che esso attraversa, tramite strutture tubolari di rivestimento (casing) e un ulteriore strato di cementazione che garantisce la separazione idraulica.
I pozzi minerari non sono destinati a rimanere sempre operativi. Quando ha concluso di svolgere la sua funzione, il pozzo viene chiuso e “abbandonato” dal punto di vista minerario. Questo si verifica in concomitanza di diverse situazioni:
- esaurimento del giacimento (comporta l’abbandono di tutti i pozzi e la bonifica totale del sito);
- termine della fase di produzione e conversione allo stoccaggio (abbandono dei pozzi non idonei allo stoccaggio perché marginali o non sufficientemente prestazionali);
- pozzi danneggiati il cui recupero non è economicamente giustificato;
- pozzi poco prestazionali per superamento della loro vita utile (mediamente pari a 50 anni).
Il pozzo viene abbandonato dal punto di vista minerario dopo la conclusione di procedure ed operazioni che ne comportano la chiusura mineraria.
La chiusura mineraria deve ripristinare le stesse condizioni idrauliche precedenti l’esecuzione del foro al fine di:
- evitare l’inquinamento delle acque dolci superficiali,
- evitare la fuoriuscita in superficie di fluidi di strato,
- isolare i fluidi di diversi strati ripristinando le chiusure di ciascuna formazione.
Questi obiettivi si raggiungono con l’uso combinato di:
- tappi di cemento: tappi di malta cementizia eseguiti in pozzo per sigillare il foro in più tratti a diverse profondità;
- squeeze di cemento: iniezione di cemento nei punti di comunicazione con il giacimento per chiudere definitivamente gli strati precedentemente perforati;
Al termine dei lavori il pozzo viene posto sotto controllo per verificare la perfetta tenuta delle cementazioni e delle flange e l’assenza di pressioni dalle intercapedini tra le diverse tubazioni, viene quindi eseguito dalle Sezioni UNMIG un sopralluogo finale a seguito del queale viene redatto apposito verbale e quindi l’area pozzo viene destinata alle operazioni di ripristino superficiale.
Dopo l’esecuzione dei tappi di chiusura mineraria, la testa del pozzo viene smontata. Lo spezzone di tubazione che fuoriesce dal terreno viene tagliato fino a 1.60/1.80 metri al di sotto del piano campagna originario e sul tubo viene saldata una apposita piastra di protezione chiamata “flangia di chiusura mineraria”.
Dall’area precedentemente occupata dal pozzo, vengono rimosse tutte le attrezzature che possono provocare un impatto sull’ambiente circostante. Il sito, così dismesso, è soggetto al ripristino ambientale, procedura che consiste nella caratterizzazione ambientale (analisi del terreno per verificare eventuali contaminazioni e/o inquinamento inquinamenti), e nell’eventuale bonifica della zona. Al termine della bonifica, l’area viene completamente rilasciata, non lasciando evidenza della precedente occupazione.
Quali sono i maggiori rischi che queste attività possono comportare?
Quali enti sono competenti a vigilare sull’ambiente?
Vengono previsti dei piani di monitoraggio ambientale?
I comparti ambientali che possono essere coinvolti dalle attività di estrazione e primo trattamento di gas e petrolio sono l’atmosfera, acqua e suolo.
Se gli impianti sono eserciti a regola d’arte e secondo le prescrizioni tecniche impartite dagli Enti competenti, l’impatto ambientale derivante dalle attività di estrazione è quello previsto nello studio d’impatto ambientale e ritenuto adeguato dalle autorità competenti (Ministero dell’Ambiente e Regioni). In caso contrario le attività sono sospese ed i luoghi sono ripristinati a spese dei titolari, che sono anche soggetti alle sanzioni previste dalla legge.
I principali enti competenti al controllo dei comparti ambientali sono le ARPA regionali (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente), organi tecnici presenti in ogni regione del territorio italiano, che, nello specifico, si occupano di verificare che i parametri chimico fisici degli impianti associati ai comparti ambientali rispettino i valori limite prescritti dalla vigente normativa in materia ambientale (una fra tutte il D.Lgs. 152/2006 e successive modifiche) e ai limiti imposti dai provvedimenti autorizzatori specifici di ogni impianto.
Per quanto concerne il Ministero dello sviluppo economico, è attivo all’interno dell’UNMIG un laboratorio chimico che, in relazione ai controlli legati alla salute dei lavoratori, svolge verifiche sulle emissioni derivanti dal trattamento del gas e del petrolio.
Nel caso in cui vengano superati i parametri di cui sopra, in ordine ad esempio a scarichi idrici od alle emissioni in atmosfera, in base a specifiche norme di legge il gestore dell’impianto incorre in sanzioni di carattere penale ed amministrativo e può anche essere disposta la chiusura dell’impianto alla produzione fino al ripristino delle condizioni di funzionamento regolare.
Se ci sono incidenti o sversamenti cosa deve fare l’azienda? Chi ne viene informato?
Nel caso ci siano incidenti/sversamenti l’azienda ha l’obbligo di legge di informare immediatamente dopo l’accaduto il Comune, la Provincia, la Regione, l’ARPA e le Sezioni UNMIG. Inoltre è tenuto a porre in essere tramite propri mezzi tutte le misure necessarie per evitare conseguenze all’ambiente circostante a seguito dell’incidente occorso secondo un piano di emergenza prestabilito.
Per quanto di loro competenza le Sezioni UNMIG (con sede a Bologna, Roma e Napoli) svolgono accertamenti per ricostruire cause e circostanze dell’incidente e verificare che le operazioni in corso in quel momento siano state svolte secondo le procedure di sicurezza previste, riferendone al magistrato nei casi previsti.
Le conseguenze principali per le aziende sono di tipo giuridico ed economico.
Relativamente al primo aspetto il titolare ed i responsabili della gestione dell’impianto, a seguito dell’accertamento delle specifiche responsabilità, sono soggetti alle sanzioni penali ed amministrative previste dalla legge comminate dalle Sezioni UNMIG.
Per quanto concerne il secondo aspetto, l’azienda può essere soggetta a sanzioni economiche oltre, ovviamente, a dover effettuare a proprie spese il totale ripristino della situazione “quo ante” l’accaduto.
Qual è il peso fiscale che grava su un’azienda che opera in Italia?
Il prelievo fiscale totale per le aziende italiane che operano nel settore delle attività estrattive e di produzione degli idrocarburi, si basa oltre che sulle royalties, sulla tassazione sui redditi delle società (IRES) con aliquota al 27,5%, sull’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) al 3,9%, sulla Robin tax, l’addizionale IRES introdotta nel 2008 ed aumentata nell’agosto 2011 fino al 10,5%.
Secondo un recente studio di Nomisma Energia complessivamente la tassazione in Italia sulle attività petrolifere è in media pari al 63,9%. Se inoltre si considera l’addizionale IRES del 4% introdotta con la l. 7/2009, il prelievo complessivo può salire fino al 68%.
Royalties. Cosa sono? A quanto ammontano?
Con il termine royalties si indica il pagamento di un corrispettivo allo Stato per poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali; esse sono quindi la remunerazione di diritti ceduti a terzi.
Con riferimento alle attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, esse sono applicate al valore della produzione. In Italia il sistema di prelievo fiscale sull’attività di esplorazione e produzione di idrocarburi combina royalties, canoni d’esplorazione e produzione, tassazione specifica e imposte sul reddito della società.
Nel nostro paese le royalties per le produzioni a terra sono attualmente del 10% (a seguito dell’incremento del 3% introdotto nel 2009), mentre per produzioni a mare è del 7% per il gas e del 4% per il petrolio, ed sono applicate sul valore di vendita delle quantità prodotte.
Il calcolo delle royalties dovute è effettuato in controvalore, calcolato sul prezzo dell’olio e del gas definito dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas per mezzo dell’indice QE (quota energetica costo materia prima gas) espresso in euro/GJ e calcolato per ciascun trimestre dell’anno di riferimento.
Le royalties per le produzioni di idrocarburi in terraferma sono ripartite per il 55% alle Regioni, il 30% allo Stato e il 15% ai Comuni. Tuttavia per le Regioni a statuto ordinario comprese nell’Obiettivo 1 (le regioni del Sud Italia tra cui la Basilicata, principale produttore italiano di petrolio) anche la quota del 30% dello Stato è assegnata direttamente alle Regioni.
Per le estrazioni offshore la suddivisione è per il 45% allo Stato e per il 55% alla Regione adiacente per le produzioni ottenute entro la fascia delle 12 miglia (mare territoriale), mentre oltre tale limite le royalties sono interamente dello Stato.
Il totale del gettito delle royalties nel 2011, sulle produzioni 2010, è stato pari a circa 276 milioni di euro dei quali circa la metà sono andati a beneficio delle Regioni (127,8 milioni di euro), allo Stato (circa 74 milioni di euro), ai Comuni (circa 19 milioni di euro) ed al Fondo di riduzione del prezzo dei carburanti (55 milioni di euro, circa 49 dei quali distribuiti ai cittadini della Basilicata). Complessivamente la maggior parte delle royalties (166,07 milioni di euro) sono destinate alla Basilicata grazie alla produzione di un solo impianto posto in Val D’Agri.
Come sopra illustrato, le somme raccolte dallo Stato, tramite versamenti da parte degli operatori al Ministero dell’economia e delle finanze, vengono in massima parte distribuite tra le Regioni e i Comuni interessati dalle attività di estrazione degli idrocarburi secondo quanto stabilito dal decreto legislativo n.625/1996 e dalle leggi n.140/1999, n.99/2009 e n.152/2006.
Qual è la situazione negli altri Paesi europei?
Innanzi tutto occorre premettere che non è semplice confrontare il regime delle royalties dei diversi Paesi produttori di petrolio in quanto esso non è uniforme. Si pensi ad esempio che uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo, la Norvegia, ha abolito le royalties a partire dal 1986 ma in compenso nel complesso applica una elevata tassazione alle aziende che svolgono attività estrattive.
Confrontando la tassazione italiana legata alle attività di estrazione e produzione di idrocarburi (che include royalties ma anche altri “prelievi”) con quella di altri Paesi europei, essa risulta essere relativamente alta (è pari “in toto” al 63,9% secondo un recente studio di Nomisma Energia).
Quando si considera la tematica della tassazione occorre infatti analizzare numerosi parametri di confronto quali, ad esempio, la produzione totale di idrocarburi, la redditività degli investimenti ed il “time to market” dei progetti legato alle tempistiche delle fasi autorizzative.
Gli Stati con maggiore prelievo fiscale sono in genere quelli con più alta produzione, alta redditività ed elevato flusso di investimenti ed occupazione nel tempo.
In Italia la produzione è ridotta rispetto ad altri Stati, la redditività contenuta con investimenti rallentati, i tempi autorizzativi molto lunghi (in media nove anni) ma la pressione fiscale è relativamente alta.
Paesi con più elevata tassazione rispetto all’Italia (es: Norvegia e UK, con prelievi fiscali in media, rispettivamente, del 78% e tra il 68 e l’82%), hanno al contempo una produzione più alta (in UK circa 6 volte maggiore dell’Italia, in Norvegia circa 20 volte), alta redditività degli investimenti, minori tempistiche (circa 4 anni) in ordine all’ottenimento delle autorizzazioni (Dati Nomisma Energia 2012 – Tassazione della produzione di gas e petrolio in Italia: un confronto).
Perché è necessario effettuare lo stoccaggio sotterraneo di gas?
Lo stoccaggio di gas naturale in sotterraneo è realizzato per soddisfare diverse esigenze legate all’utilizzo e alla produzione del gas. In particolare, rispondere in tempo reale alle richieste di gas del mercato; permettere di gestire le strutture produttive e di trasporto con adeguati margini di elasticità; garantire il mantenimento di riserve “strategiche” da utilizzare esclusivamente per fronteggiare situazioni eccezionali come condizioni meteorologiche particolari (punte anomale di freddo intenso), o crisi internazionali che blocchino in parte gli approvvigionamenti dall’estero, che costituiscono oltre il 90% del gas utilizzato in Italia – nel 2011 complessivamente circa 82.000 milioni di metri cubi. Il processo è ciclico: nella stagione estiva viene riempito il giacimento mentre, durante i mesi invernali, il gas viene immesso nella rete nazionale. Gli impianti di stoccaggio in esercizio oggi in Italia permettono lo stoccaggio di circa 14.000 milioni di metri cubi di gas.
Dove viene materialmente immagazzinato il gas?
Il giacimento si presenta come una cavità?
Lo stoccaggio ha luogo nei giacimenti, che sono strutture geologiche sotterranee che hanno caratteristiche idonee all’immagazzinamento e al prelievo del gas. Il giacimento non è una cavità ma un sistema roccioso poroso e permeabile che è in grado di garantire la permanenza del gas e di erogarlo quando richiesto dal mercato: il giacimento può quindi essere visto come una spugna che trattiene il gas e lo rilascia quando richiesto.
Tutti i giacimenti possono potenzialmente ospitare del gas?
Che caratteristiche devono presentare?
Solitamente si utilizzano giacimenti sabbiosi già sfruttati minerariamente per la produzione di gas, situati mediamente a circa 1.300 – 2.000 metri di profondità.
Affinché un giacimento sia idoneo, deve presentare delle specifiche caratteristiche per quanto concerne la conformazione sia della “roccia serbatoio” dove è contenuto il gas, che della “roccia di copertura” che ha il compito di impedire le perdite di gas verso l’alto.
La roccia serbatoio deve essere caratterizzata da significativi valori di porosità e permeabilità dalle quali dipendono, rispettivamente, il volume di gas ospitabile e la mobilità del gas nel giacimento, ovvero il tempo necessario per le operazioni di iniezione o estrazione di una determinata quantità di gas.
La roccia di copertura è generalmente costituita da argille, materiale impermeabile che impedisce la migrazione del gas verso la superficie.
Da quanto tempo si opera nel settore degli stoccaggi, è una tecnologia ormai consolidata?
Nel 1915 in Canada fu realizzato il primo impianto di stoccaggio in sotterraneo seguito nel 1916 dagli Stati Uniti; da allora lo stoccaggio si è sviluppato sino a diventare un processo industriale utilizzato in tutto il mondo, presentando una tecnologia che oggi può essere considerata del tutto consolidata. Nel mondo attualmente sono attivi circa 600 siti di stoccaggio, di cui il 70% ubicati negli USA e la restante parte concentrata in Europa.
Il primo stoccaggio di gas naturale in Italia è stato realizzato nel 1964 a Cortemaggiore, in Emilia Romagna; oggi in Italia sono in esercizio 10 siti di stoccaggio e 3 sono in corso di realizzazione.
Cosa accade al gas una volta stoccato? Cosa assicura che resti confinato all’interno della zona individuata e non si possano avere fuoriuscite?
Il gas resta bloccato negli interstizi della roccia serbatoio. La presenza di una roccia di copertura, caratterizzata da un elevata impermeabilità, assicura che non vi siano migrazioni al di fuori del giacimento verso le aree limitrofe con conseguente possibilità di fuoriuscite.
Esiste la possibilità che si verifichino fenomeni sismici a seguito dello stoccaggio del gas nel sottosuolo?
Nessuno degli studi e delle analisi condotte in questi anni ha evidenziato possibili correlazioni fra fenomeni sismici e lo stoccaggio di gas nel sottosuolo. Come ulteriore e continua verifica, tutti i giacimenti sono costantemente monitorati con appositi sensori inseriti nel sottosuolo al fine di rilevare eventuali eventi microsismici nel corso delle fasi di iniezione ed erogazione.
Riguardo agli impianti di compressione e trattamento che costituiscono le centrali di stoccaggio, vi è il rischio di emissioni nocive che possano riguardare l’atmosfera, l’ambiente idrico o il terreno?
Perché in centrale vi sono alti camini e cosa esce dalla loro sommità?
Le emissioni sono riconducibili alle emissioni dei motori dei compressori, della caldaia per la rigenerazione del disidratante, del generatore di emergenza per la produzione di energia elettrica. Gli “alti camini” svolgono unicamente funzione di scarico di sicurezza e vengono pertanto impiegati solo nel caso in cui sia richiesto lo svuotamento delle tubazioni per l’effettuazione di lavori di manutenzione o per motivi di sicurezza. In questo caso vengono immessi in atmosfera ridotti quantitativi di gas per garantirne la dispersione in sicurezza. Tali camini non sono torce ma “camini freddi” in cui il gas non brucia né può bruciare in quanto alla sommità del camino è presente un sistema estinguente che entra in funzione qualora il gas emesso dovesse bruciare.
Inoltre non ci sono interazioni tra gli impianti della centrale e l’ambiente idrico e il terreno in quanto tutti i residui liquidi sono raccolti e adeguatamente smaltiti e eventuali versamenti non possono raggiungere il terreno perché tutte le apparecchiature sono posizionate in bacini di contenimento impermeabili atti a raccogliere eventuali fuoriuscite.
Vi è il rischio di inquinamento acustico durante le fasi di iniezione/erogazione causato dal rumore prodotto dai compressori o dagli impianti in genere?
L’eventuale “inquinamento acustico”, viene mitigato dall’adozione di una serie di accorgimenti (barriere fonoassorbenti, cabinati in cui sono posizionati i turbocompressori, valvole silenziate), tali da garantire, in ogni condizione di esercizio, il rispetto dei limiti fissati dalle norme.
La fase di cantiere (perforazione e realizzazione della centrale) è rumorosa ?
Quanto tempo occorre per perforare un pozzo?
Già prima dell’avvio della fase di cantiere viene realizzato uno studio per stimare gli impatti sonori sulle aree vicine a quella interessata dalla realizzazione degli impianti; opportune misure mitigative sono messe in atto proprio in base ai risultati di tali valutazioni. Durante le successive fasi di cantiere viene realizzato il monitoraggio dei livelli sonori al fine di individuare tempestivamente eventuali superamenti dei livelli sonori consentiti e adeguare le misure di mitigazione previste.
Mediamente le operazioni di perforazione di un pozzo richiedono circa un mese e vengono realizzate in continuo sulle 24 ore.
Che danni può portare l’impianto sotto il profilo dell’impatto paesaggistico sul territorio?
E la presenza di gas nel sottosuolo sotto il profilo delle attività agricole e delle colture?
L’impatto paesaggistico di un impianto di stoccaggio è dato dalla presenza dei pozzi e delle strutture della centrale (cabinati che contengono i compressori, colonne di disidratazione del gas, la torcia fredda). L’impatto generato sul territorio dall’inserimento dei nuovi impianti di stoccaggio viene oggi mitigato con la realizzazione di opportuni interventi di piantumazione lungo il confine delle aree interessate.
Il gas, è confinato a elevate profondità nel sottosuolo (1.000-1.500 metri) e non influenza in alcun modo le attività svolte in superficie, comprese le attività agricole. Infatti gli strati rocciosi impermeabili di copertura isolano completamente il giacimento che contiene il gas impedendone la fuoriuscita.
Vi sarà un aumento del traffico stradale pesante?
Vi sarà un aumento del traffico pesante durante le fasi di costruzione della centrale di compressione e trattamento (in media circa 12 mesi) e durante le attività di perforazione dei pozzi (circa un mese per ogni pozzo). In fase di esercizio, il traffico pesante risulta limitato alle attività di approvvigionamento dei materiali e di smaltimento residui. In sede di Valutazione di impatto ambientale vengono esaminati i flussi di traffico e prescritte le idonee misure per il contenimento degli impatti.
Durante l’esercizio della centrale verranno prodotti rifiuti speciali ?
Che cosa è previsto a riguardo?
I rifiuti speciali prodotti durante l’esercizio della centrale sono costituiti prevalentemente dalle acque che provengono dal processo di disidratazione del gas e dalle acque meteoriche raccolte nei piazzali. Vanno inoltre considerati i residui dei composti chimici (glicol dietilenico e trietilenico) impiegati durante il processo di disidratazione del gas. Tutti i residui devono essere smaltiti con le modalità prescritte; in particolare le acque di processo vengono reiniettate nel giacimento tramite pozzi dedicati o smaltite in discariche, mentre le acque meteoriche vengono smaltite in funzione del contenuto di inquinanti determinato con analisi chimiche effettuate proprio per la loro caratterizzazione.
Sicurezza: ci sono mai stati incidenti rilevanti nell’attività di stoccaggio?
Non sono stati segnalati incidenti rilevanti legati all’attività di stoccaggio di gas naturale in sotterraneo. In particolare in Italia non si sono verificati incidenti rilevanti che abbiano coinvolto i lavoratori o le comunità locali.
Anche da un punto di vista della sicurezza dei lavoratori addetti all’esercizio dello stoccaggio, grazie all’applicazione e ai controlli previsti dalla normativa specifica, il settore dimostra un livello di sicurezza molto più alto degli altri comparti industriali, come è dimostrato costantemente dalle statistiche e comprovato dalle tabelle di rischio assicurativo INAIL, le più basse tra i comparti industriali (33 contro 100 della media, con prevalenza degli infortuni durante il tragitto abitazione-posto di lavoro).
In termini di salute, i lavoratori e le popolazioni locali si possono considerare
pienamente tutelate?
Il rispetto dei più alti standard in termini di salute e sicurezza rappresenta una delle principali prerogative sin dalle primissime fasi di progettazione e realizzazione di un progetto di stoccaggio. L’applicazione coordinata delle normative di sicurezza mineraria (di competenza dei tecnici dell’UNMIG) e della normativa “Seveso”, relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti (di competenza dei Comitati Tecnici Regionali (CTR) presieduti dai comandanti regionali dei Vigili del Fuoco), garantiscono alti livelli di sicurezza per i lavoratori e la popolazione. In particolare l’esame del progetto da parte dei CTR, finalizzato alla identificazione e quantificazione del rischio, permette la definizione e l’applicazione di programmi di prevenzione e protezione della popolazione specifici per ogni impianto.
Invece di utilizzare i giacimenti naturali non si può immagazzinare il gas in serbatoi metallici?
E’ possibile utilizzare serbatoi cilindrici metallici interrati o grosse sfere in superficie ma, considerati gli alti volumi di gas da stoccare (complessivamente attualmente in Italia 14 miliardi di metri cubi) , il numero di serbatoi necessario sarebbe elevatissimo, con una insostenibile occupazione del territorio. Tali serbatoi sono utilizzati in paesi, come la Svizzera, che non dispongono di giacimenti naturali dove realizzare lo stoccaggio. Presso Volketswil c’è il più grande impianto al mondo realizzato con serbatoi cilindrici interrati per una capacità di stoccaggio di 0,7 milioni di metri cubi di gas.
Come viene scelto un sito per la realizzazione dello stoccaggio ?
Perché proprio in quella zona, non può essere spostato in un’altra area, magari più lontano dai centri abitati o all’estero?
Nel selezionare i siti da adibire a stoccaggio fondamentali sono le caratteristiche già note del giacimento che deve garantire un sicuro ed efficiente immagazzinamento e prelievo del gas. Viene inoltre valutato il contributo che lo stoccaggio può offrire per soddisfare i consumi di gas del territorio, attuali e previsti. Altro aspetto importante è il corretto bilanciamento della rete di trasporto nazionale che deve garantire la disponibilità del gas su tutto il territorio nazionale anche in caso di improvvise interruzioni dai punti di importazione del nord e sud Italia. Una volta selezionato il sito dal punto di vista tecnico, ne viene valutata la compatibilità ambientale e la sicurezza degli impianti, con particolare riferimento alla presenza di abitazioni o di luoghi frequentati dalla popolazione. Le valutazioni di compatibilità ambientale e di sicurezza degli impianti vedono la partecipazione attiva della popolazione interessata.
Come nasce la necessità dello stoccaggio geologico della CO2?
La necessità di ricorrere allo stoccaggio permanente della CO2 nasce dalla volontà di contrastare i cambiamenti climatici in atto, che minacciano l’intero ecosistema.
Si stima che la domanda mondiale di energia nel 2035 sarà più alta di oltre il 30% rispetto a quella del 2008, e che, nonostante lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, i combustibili fossili continueranno a svolgere un ruolo importante, coprendo oltre il 70% del fabbisogno.
Ciò comporterà un aumento delle emissioni annue di CO2 da 29,3 miliardi di tonnellate all’anno, registrate nel 2008, a oltre 35 miliardi di tonnellate all’anno previste nel 2035, con il conseguente aumento della concentrazione di tale gas nell’atmosfera da 387 parti per milione (ppm) nel 2009 a valori superiori a 650 ppm. Si stima che ciò determinerà un incremento della temperatura media della terra di 3,5 gradi centigradi. La comunità scientifica mondiale continua a studiare i complessi scenari climatici futuri e ad oggi ritiene che l’aumento massimo di temperatura che il globo può sopportare è di 2 °C, corrispondenti ad una concentrazione di CO2 pari a circa 450 ppm. Appare quindi evidente che bisogna ridurre il tasso di emissione della CO2 ai fini di mantenerne la concentrazione in atmosfera sotto tale soglia.
Come azione a breve termine, l’obiettivo entro il 2020 è quello di ridurre del 20% il livello delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. A lungo termine, invece, l’obiettivo è ridurre tali emissioni del 70%, sempre in riferimento ai livelli del 1990.
A seguito dello sviluppo tecnologico degli ultimi anni e nel tentativo di raggiungere concretamente i citati target di abbattimento delle emissioni, si sono messe a punto specifiche tecniche di cattura e confinamento della CO2 indicate genericamente con l’appellativo di ”CCS”, acronimo di Carbon Capture & Storage. Si tratta di tecnologie di transizione, destinate ad essere applicate fino a quando non si svilupperanno metodologie di produzione energetica avanzate, al punto tale da ridurre in maniera significativa, alla fonte, le emissioni.
Quali strumenti normativi sono stati messi in atto a livello Europeo? E in Italia?
A livello europeo ciascuno Stato è stato responsabilizzato sulla necessità di intraprendere azioni precise e, a riguardo, è stata emanata la Direttiva n. 31 del 23 Aprile 2009, recepita in Italia con il decreto legislativo n. 162 del 14 settembre 2011.
Dove viene materialmente immagazzinata la CO2?
Lo stoccaggio permanente di CO2 ha luogo in strutture geologiche sotterranee che hanno caratteristiche idonee al confinamento. La CO2 iniettata si accumula nelle fratture e negli interstizi delle rocce porose e permeabili delle formazioni geologiche profonde ritenute idonee.
Tutte le formazioni geologiche sono idonee per stoccare la CO2?
Che caratteristiche devono presentare?
Affinché un giacimento sia idoneo, deve presentare specifiche caratteristiche per quanto concerne la conformazione della “roccia serbatoio” ove sarà appunto contenuta la CO2 e dalla “roccia di copertura”, la quale dovrà risultare completamente impermeabile al fine di impedire fuoruscite.
Esistono tre opzioni principali per lo stoccaggio permanente della CO2 :
- Giacimenti esauriti di gas naturale e petrolio
Offrono opportunità di stoccaggio della CO2 e presentano caratteristiche geo-morfologiche ben note - Acquiferi Salini
Offrono un potenziale di stoccaggio della CO2 di gran lunga superiore in termini di volumi stoccabili rispetto ai giacimenti esauriti ma ne vanno verificate le caratteristiche geomorfologiche. - Giacimenti profondi di carbone
opzione in via di studio.
Gran parte delle formazioni idonee si trovano a profondità comprese tra 1.000 e 4.000 metri, dove la pressione è sufficientemente elevata per immagazzinare la CO2 in fase liquida.
Cosa accade alla CO2 una volta immagazzinata nel sito di stoccaggio?
La CO2 iniettata nella roccia serbatoio va a riempire gli interstizi liberi al di sotto della roccia di copertura. Con il trascorre del tempo, una parte della CO2, si discioglie nell’acquifero salino sottostante e in alcuni casi reagisce trasformandosi in minerali (carbonato di calcio e magnesio). Questi ultimi processi si svolgono in tempi molto lunghi, contribuendo a rendere permanente l’intrappolamento.
E’ una tecnologia ormai consolidata? Esistono esempi nel mondo?
A partire dagli anni ‘90 sono stati condotti importanti programmi di ricerca sulle tecnologie CCS in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone. Molte conoscenze sono state acquisite con i primi progetti dimostrativi nell’ambito dei quali la CO2 è iniettata ormai da più di quindici anni. A titolo di esempio, tra i principali progetti di successo attualmente in esercizio si ricordano :
- Sleipner (Norvegia) : circa 1milione di tonnellate all’anno iniettate a partire dal 1996
- Weyburn (Canada) : circa 1,8 milioni di tonnellate all’anno iniettate a partire 2000
- In Salah (Algeria) : circa 1milione di tonnellate all’anno iniettate a partire dal 2004
Su scala minore (progetti pilota) decine di altri esempi sono attualmente in esercizio, con finalità dimostrative, come, ad esempio, in Francia (Lacq), Spagna (Compostilla), Germania (Schwarze Pumpe).
L’obiettivo a livello europeo è realizzare almeno 12 progetti dimostrativi su grande scala entro il 2020.
Esistono progetti di stoccaggio della CO2 in Italia ?
Al momento non esistono progetti industriali attivi in Italia, tuttavia è da segnalare che nel 2008, ENEL ed ENI hanno sottoscritto un accordo strategico di collaborazione per lo sviluppo di tecnologie CCS.
Nell’ambito di tale accordo si inquadra la realizzazione del primo progetto pilota integrato ENEL per la cattura della CO2 nella centrale elettrica di Brindisi sud e il progetto ENI di iniezione in un giacimento esausto di gas a Cortemaggiore (Piacenza).
L’impianto di Brindisi cattura circa 2,5 tonnellate all’ora di CO2 da iniettare nel giacimento di Cortemaggiore, oggi adibito allo stoccaggio di gas naturale.
La sperimentazione durerà tre anni, e si prevede di iniettare complessivamente 24.000 tonnellate di CO2 (8.000 t/anno).
Su scala industriale, è in corso di definizione il progetto “Porto Tolle” di cattura post-combustione e separazione di circa 1 milione di tonnellate all’anno di CO2 prodotte dall’omonima centrale a carbone e di successivo trasporto della CO2 sequestrata tramite pipeline a strutture di stoccaggio in acquifero profondo. Attualmente è in corso il procedimento per l’autorizzazione della realizzazione della centrale e sono in corso studi per l’individuazione del sito di stoccaggio.
Un ulteriore sperimentazione prevista riguarda il progetto integrato “CCS Sulcis”. Il progetto prevede di realizzare un sistema dimostrativo CCS comprendente una sezione di cattura di CO2 alimentata con una parte dei fumi di combustione di una nuova centrale elettrica e un sistema di trasporto e confinamento geologico di CO2 negli strati profondi del bacino carbonifero del Sulcis mediante l’applicazione combinata delle tecnologie ECBM (Enhanced Coal Bed Methane) e del confinamento in acquiferi sottostanti gli strati di carbone.
Infine, ulteriori potenziali progetti, oggi ancora in fase di studio, riguardano, la possibilità di catturare la CO2 da impianti di gassificazione presenti nelle raffinerie e il conseguente stoccaggio in giacimenti petroliferi limitrofi, con contemporanea verifica della possibilità di incremento nel recupero dei greggi pesanti (EOR); in fase si studio risulta anche un progetto di separazione della CO2 da idrocarburi gassosi acidi (ricchi di CO2) prodotti da giacimenti in produzione e la re-iniezione della stessa in giacimenti limitrofi depletati o in acquifero salino.
Per entrambi gli studi è in fase di completamento uno screening tecnico volto ad individuare gli impianti e i giacimenti che presentano le caratteristiche geo-morfologiche idonee e compatibili con le finalità dei progetti.
Cosa assicura che la CO2 resti confinata all’interno della zona individuata e non vi sia il rischio che si possa disperdere con fuoriuscite?
In generale le potenziali vie di fuga sono artificiali (ad esempio da pozzi preesistenti o da quelli realizzati per l’iniezione della CO2) o naturali (ad esempio fratture e faglie). Tali rischi vengono tenuti sotto controllo tramite attenti studi e verifiche preliminari delle strutture preesistenti nell’area, una idonea progettazione e realizzazione dei pozzi di iniezione e attenti monitoraggi dell’aria e del suolo da effettuarsi prima, durante e una volta conclusa la fase di stoccaggio,
La migrazione lungo faglie/fratture è un fenomeno complesso, tuttavia una buona conoscenza delle strutture geologiche consente di gestire i siti di stoccaggio della CO2 con gli stessi livelli di sicurezza che caratterizzano la coltivazione dei giacimenti di idrocarburi che, in modo naturale, per milioni di anni hanno imprigionato il metano o il petrolio.
Esiste la possibilità che si verifichino fenomeni sismici a seguito del confinamento di CO2 nel sottosuolo?
Tutte le analisi e gli studi condotti, monitorando il comportamento dei campi dove è in corso lo stoccaggio della CO2, non evidenziano alcuna diretta correlazione fra i fenomeni sismici e l’iniezione e lo stoccaggio.
In termini di salute e sicurezza, quali sono i possibili impatti per le popolazioni?
E per l’ambiente?
La CO2 non risulta pericolosa per la salute dell’uomo, se non ad alte concentrazioni. Nell’aria che quotidianamente respiriamo la CO2 è presente con una concentrazione di circa lo 0,04%. Valori inferiori allo 0,5% sono tollerati senza alcuna conseguenza per la salute dell’uomo. Al crescere del livello di concentrazione e per valori superiori alla soglia sopracitata si possono, invece, verificare disturbi e patologie quali mal di testa, nausee e vertigini. Con concentrazioni più elevate ed in caso di esposizione prolungata, si possono avere serie difficoltà respiratorie e, nei casi più gravi, asfissia.
Tramite il monitoraggio continuo delle aree possono essere individuate immediatamente eventuali fuoriuscite e prese le dovute misure correttive.
Bisogna comunque osservare che se la CO2 fuoriesce in un sito aperto e pianeggiante, essa si disperde naturalmente nell’aria; il potenziale rischio è quindi limitato a fuoriuscite in ambienti chiusi e circoscritti o in depressioni topografiche, in quanto, in tali particolari situazioni, la concentrazione di CO2 può aumentare poiché, essendo più densa dell’aria, tende ad accumularsi in prossimità del suolo e dei punti di fuoriuscita. In Italia in molte aree la CO2 è presente naturalmente nel sottosuolo e fuoriesce spontaneamente provocando, talora, una localizzata riduzione della vegetazione.