Domande frequenti sulla Ricerca e coltivazione di idrocarburi

In una istanza di coltivazione in cui sono previste infrastrutture come ad esempio un gasdotto, qualora dovesse divenire concessione, la realizzazione del gasdotto baypasserebbe le pianificazioni territoriali?

Presumendo che si tratti di una istanza di concessione di coltivazione per idrocarburi in terraferma, occorre premettere che una istanza di concessione viene presentata a seguito di ritrovamento di idrocarburi, in regime di permesso di ricerca, e dopo la definizione di un giacimento tecnicamente ed economicamente coltivabile. Si richiama che il giacimento si configura come patrimonio indisponibile dello stato ed in quanto tale ai sensi della normativa riveste carattere di pubblica utilità.

La concessione di coltivazione, oltre alle valutazioni tecniche minerarie di fattibilità, viene rilasciata a seguito di Intesa regionale e Valutazione di impatto ambientale sul programma dei lavori da realizzarsi. Nell’ambito di tali procedure (Intesa e VIA) sono valutate le interferenze sulle pianificazioni territoriali.

 

I BOP (Blowout Preventer) costruiti secondo le norme API, ma privi di marcatura CE possono essere utilizzati su territorio italiano e comunque all’interno della comunità europea?

Con il Decreto Direttoriale 29 novembre 2004 sono state riconosciute idonee, ai sensi dell’articolo 30, comma 4, del Decreto Legislativo 25 novembre 1996 n. 624, le norme emanate dell’American Petroleum Institute-API. In particolare per i sistemi di controllo delle eruzioni del pozzo (BOP) e loro unità di controllo le norme API di riferimento sono 6A, 16 A e 16D.

 

Il Decreto Ministeriale 25 marzo 2015 è stato abrogato?

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170 del 2017, ha dichiarato l’incostituzionalità del comma 7 dell’articolo 38 del citato d.l., nella parte in cui non prevede un adeguato coinvolgimento delle Regioni nel procedimento finalizzato all’adozione del decreto del Ministro dello sviluppo economico con cui sono stabilite le modalità di conferimento del “titolo concessorio unico”, nonché le modalità di esercizio delle relative attività.

Di conseguenza, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 198 del 2017, nell’ambito del conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Abruzzo, ha annullato, per l’effetto della precedente, il Decreto Ministeriale 25 marzo 2015, recante «Aggiornamento del disciplinare tipo in attuazione dell’articolo 38 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164», che comprendeva le modalità di rilascio del “titolo concessorio unico”, lasciando inalterate le modalità relative alle altre tipologie di titoli minerari vigenti.

Il citato  DM del 2015, nel frattempo era stato sostituito dal Decreto Ministeriale 7 dicembre 2016 predisposto a seguito della riorganizzazione interna al Ministero delle funzioni relative alle attività nel settore idrocarburi precedentemente assegnate ad una sola Direzione: DGRIME, prevedendo l’attribuzione alla DGS-UNMIG delle competenze relative alla gestione tecnica, al controllo, alla vigilanza e alla sicurezza anche ambientale delle operazioni e assegnando alla DGSAIE le competenze relative al rilascio dei permessi di prospezione, di ricerca e delle concessioni di coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, ai relativi procedimenti espropriativi, nonché alla gestione delle relative entrate al bilancio dello Stato e degli Enti territoriali.

Pertanto le sentenze 170 e 198/2017 della suprema Corte hanno determinato inevitabilmente degli effetti giuridici sul “Disciplinare” di cui al DM 7 dicembre 2016 in relazione alle parti relative al titolo concessorio unico. Così che il Ministero dello sviluppo economico ha ritenuto opportuno ottemperare con il Decreto Ministeriale 9 agosto 2017 a quanto disposto dalla Corte Costituzionale, operando l’adeguamento del disciplinare tipo di cui al DM 7 dicembre 2016, per tenere conto di quanto sancito con la sentenza costituzionale n. 170 del 2017.

Giova precisare che il DM 9 agosto 2017 si limita a novellare il DM 7 dicembre 2016, espungendo gli articoli sul titolo unico e rimandando all’intesa con le Regioni, le modalità di conferimento del titolo concessorio unico di cui al comma 7 dell’articolo 38 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133.

Anche il DM 9 agosto 2017 è stato oggetto di un conflitto di attribuzione promosso sempre dalla Regione Abruzzo, per il quale la Corte costituzionale con sentenza 42/2019, depositata l’8 marzo 2019, ha dichiarato detto  conflitto di attribuzioni non fondato, in quanto “spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dello sviluppo economico adottare il decreto 9 agosto 2017.

Infine per gli aspetti operativi la Direzione Generale UNMIG ha specificato con Circolare 9 maggio 2018 che il decreto direttoriale del 15 luglio 2015 che disciplina in dettaglio le attività e le azioni amministrative attinenti alle attività è applicabile per tutto quanto non fa riferimento al titolo concessorio unico.

 

Quali sono le disposizioni legislative che prevedono la riservatezza di alcune informazioni relative ai titoli minerari vigenti come ad esempio i dati sui pozzi attivi?

L’articolo 39, comma 1 della Legge 21 luglio 1967, n. 613 dispone che: “I dati e le notizie di carattere tecnico ed economico relativi alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione, forniti all’Amministrazione dai titolari dei permessi e concessioni e che rivestono carattere di riservatezza, quali i rilievi geofisici con le interpretazioni relative, i profili geologici dei pozzi con le diagrafie, le correlazioni relative, l’entità delle riserve, non possono essere resi pubblici senza il consenso scritto degli interessati.”

Il successivo comma 2 dispone che: “I dati e le notizie di cui sopra, relativi a permessi o concessioni revocati, scaduti o rinunciati, o concernenti aree restituite in base agli articoli 24, 25 e 36, possono essere resi pubblici dall’Amministrazione soltanto dopo due anni dalla cessazione dei rispettivi titoli.”

Il termine di due anni dalla cessazione del titolo è stato ridotto ad uno dall’articolo 16, comma 4 del Decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625.

I pozzi attivi sono tutti ubicati in titoli minerari vigenti e quindi le loro informazioni di dettaglio non possono essere rese pubbliche.

Le informazioni sui titoli minerari cessati e quindi anche sui pozzi chiusi minerariamente, sono rese disponibili sul sito del Progetto ViDEPI.

 

Qual’è la procedura che le aziende devono seguire per poter avviare attività di estrattive nel territorio italiano? Che ruolo ha il ministero dello sviluppo economico in questo iter?

Le attività estrattive possono essere avviate solo a seguito del rilascio di una concessione di coltivazione conferita, a seguito dell’esito positivo delle attività di ricerca di idrocarburi, con decreto del Ministero dello sviluppo economico d’intesa, per le concessioni in terraferma, con la Regione interessata previa acquisizione del parere favorevole di compatibilità ambientale da parte dell’Amministrazione competente.

 

Qual’è la situazione italiana: il numero di pozzi produttivi; quanto la produzione nostrana contribuisce a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese?

In Italia sono presenti più di 886 pozzi produttivi (525 onshore e 361 offshore). Sul totale, 701 pozzi producono gas mentre i restanti 185 sono mineralizzati ad olio. La produzione di gas annuale ammonta complessivamente a circa 7,29 GSm3 di gas e 5,75 Mton di olio.
Le produzioni di gas ed olio contribuiscono rispettivamente per circa il 10% e circa il 7% al fabbisogno energetico nazionale.
Questi dati riferiti all’anno 2014, come i dati di dettaglio relativi alla produzione, ai titoli rilasciati, alle domande di permesso di ricerca e di concessione di coltivazione nonché le informazioni su tutte le attività svolte della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico, sono presenti sul sito della direzione all’indirizzo: http://unmig.mise.gov.it.

 

Rilascio del permesso di ricerca. Chi decide e in base a quali criteri?
Come vengono coinvolte le comunità locali?

Il permesso di ricerca è un titolo esclusivo, rilasciato su richiesta della compagnia petrolifera, che presenta il programma di ricerca che intende sviluppare e gli studi geologici e geofisici che motivano la scelta dell’area sulla base della possibile presenza di idrocarburi liquidi/gassosi. Sulla stessa area possono essere presentate istanze in concorrenza da parte di altri operatori, per tre mesi dalla pubblicazione della prima domanda sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.
La normativa di riferimento per il rilascio del permesso di ricerca è l’art. 8, comma 1, del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 484; l’art. 6, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 9, nonché, per la terraferma, dell’art. 1, comma 7, lettera n) della legge 20 agosto 2004, n. 239.
Il permesso di ricerca è rilasciato a seguito di un procedimento unico (della durata massima di 180 giorni), disciplinato dall’art. 1 commi 77 e 79 della legge 23 agosto 2004, n. 239 e successive modifiche.
Il progetto viene selezionato dal Ministero dello sviluppo economico, sentito il parere di un organo consultivo, la CIRM, nell’ambito della quale sono rappresentate le Amministrazioni statali competenti (Ministero dello sviluppo economico, Ministero dell’ambiente, Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, ISPRA, Avvocatura di Stato) nonché i rappresentanti regionali. Per i permessi offshore sono coinvolti anche il Ministero dei Trasporti e quello delle Politiche Agricole e Forestali.
I progetti sono sottoposti alla procedura di assoggettabilità ambientale e/o all’espressione del giudizio di compatibilità ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente o della Regione interessata. I permessi in terraferma vengono rilasciati dal Ministero d’intesa con le regioni interessate.
Per quanto concerne il coinvolgimento delle comunità locali, esso è garantito dal ruolo svolto nell’ambito del procedimento dalle amministrazioni comunali e provinciali interessate.

 

Ci sono particolari prescrizioni che un’azienda deve rispettare nell’esercizio di una concessione di coltivazione? Quali sono le sanzioni per il mancato rispetto di questi obblighi?

La concessione di coltivazione viene conferita al titolare del permesso di ricerca che abbia rinvenuto idrocarburi liquidi e gassosi e che dimostri di avere adeguati requisiti economici e tecnici che permettano il “buon governo” del giacimento.
Il Decreto con il quale è conferita la concessione di coltivazione contiene tutte le prescrizioni e i vincoli stabiliti dagli Enti che hanno esaminato il progetto nel corso del procedimento amministrativo del quale il decreto è l’ultimo tassello (tra gli Enti ricordiamo, il Ministero dell’Ambiente e il Ministero dei beni culturali o la Regione per gli aspetti di compatibilità ambientale).

 

Come viene individuata l’area destinata alla costruzione degli impianti?
Se in quest’area rientrano delle proprietà private, cosa accade?
Chi gestisce le trattative?

L’area destinata alla costruzione degli impianti onshore viene individuata sulla base di valutazioni tecniche ed economiche in funzione della localizzazione del giacimento da coltivare; vengono valutate: la distanza dei pozzi dall’area dell’impianto, la morfologia del territorio, l’assetto idrogeologico del territorio.
Da sottolineare che le istituzioni preposte al rilascio delle autorizzazioni ambientali/paesaggistiche valutano la collocazione scelta e possono impartire prescrizioni che garantiscano che l’area individuata sia perfettamente idonea all’uso o richiedere particolari opere di mitigazione paesaggistica (piantumazioni).
Per quanto concerne l’aspetto patrimoniale, le società petrolifere che intendono utilizzare determinate aree per la costruzione degli impianti le acquisiscono a seguito di accordi con i proprietari privati previa corresponsione di adeguati indennizzi. Comunque le opere sono considerate di pubblica utilità e quindi, in caso di mancato accordo, può essere avviata la procedura di esproprio.

 

C’è una distanza limite in cui gli stabilimenti devono essere posizionati rispetto ai centri abitati?

Prima di costruire un impianto la società concessionaria esegue valutazioni di rischio finalizzate a verificare l’impatto di eventuali incidenti sul territorio circostante.
Tali valutazioni sono condivise con gli Enti deputati al rilascio delle autorizzazioni alla costruzione che impongono determinate prescrizioni in ordine alla distanza minima degli impianti dai luoghi circostanti.
Caso più articolato quello degli impianti rientranti nella normativa “Seveso Ter” e dunque considerati a rischio di incidente rilevante. In questo caso le verifiche e le eventuali prescrizioni in ordine alla distanza degli impianti dai luoghi provengono dal Comitato Tecnico Regionale (CTR) composto da organi tecnici fra cui Regione, Vigili del Fuoco, ARPA, Comuni e Sezioni UNMIG competenti.

 

Cosa succede a un pozzo quando finisce la produzione?

I pozzi minerari sono strutture tramite le quali è possibile l’estrazione di idrocarburi (olio e gas naturale) dal sottosuolo. Sono costituiti da una parte sotterranea, che può raggiungere profondità variabili in funzione della posizione del giacimento, caratterizzata da una serie telescopica di tubi, e da una parte superficiale, detta testa pozzo, costituita da un insieme di valvole che isolano l’interno del pozzo dall’ambiente esterno impedendo la fuoriuscita di fluidi di produzione. Il pozzo è completamente isolato dagli strati di terreno che esso attraversa, tramite strutture tubolari di rivestimento (casing) e un ulteriore strato di cementazione che garantisce la separazione idraulica.
I pozzi minerari non sono destinati a rimanere sempre operativi. Quando ha concluso di svolgere la sua funzione, il pozzo viene chiuso e “abbandonato” dal punto di vista minerario. Questo si verifica in concomitanza di diverse situazioni:

  1. esaurimento del giacimento (comporta l’abbandono di tutti i pozzi e la bonifica totale del sito);
  2. termine della fase di produzione e conversione allo stoccaggio (abbandono dei pozzi non idonei allo stoccaggio perché marginali o non sufficientemente prestazionali);
  3. pozzi danneggiati il cui recupero non è economicamente giustificato;
  4. pozzi poco prestazionali per superamento della loro vita utile (mediamente pari a 50 anni).

Il pozzo viene abbandonato dal punto di vista minerario dopo la conclusione di procedure ed operazioni che ne comportano la chiusura mineraria.
La chiusura mineraria deve ripristinare le stesse condizioni idrauliche precedenti l’esecuzione del foro al fine di:

  1. evitare l’inquinamento delle acque dolci superficiali,
  2. evitare la fuoriuscita in superficie di fluidi di strato,
  3. isolare i fluidi di diversi strati ripristinando le chiusure di ciascuna formazione.

Questi obiettivi si raggiungono con l’uso combinato di:

  1. tappi di cemento: tappi di malta cementizia eseguiti in pozzo per sigillare il foro in più tratti a diverse profondità;
  2. squeeze di cemento: iniezione di cemento nei punti di comunicazione con il giacimento per chiudere definitivamente gli strati precedentemente perforati;

Al termine dei lavori il pozzo viene posto sotto controllo per verificare la perfetta tenuta delle cementazioni e delle flange e l’assenza di pressioni dalle intercapedini tra le diverse tubazioni, viene quindi eseguito dalle Sezioni UNMIG un sopralluogo finale a seguito del queale viene redatto apposito verbale e quindi l’area pozzo viene destinata alle operazioni di ripristino superficiale.
Dopo l’esecuzione dei tappi di chiusura mineraria, la testa del pozzo viene smontata. Lo spezzone di tubazione che fuoriesce dal terreno viene tagliato fino a 1.60/1.80 metri al di sotto del piano campagna originario e sul tubo viene saldata una apposita piastra di protezione chiamata “flangia di chiusura mineraria”.
Dall’area precedentemente occupata dal pozzo, vengono rimosse tutte le attrezzature che possono provocare un impatto sull’ambiente circostante. Il sito, così dismesso, è soggetto al ripristino ambientale, procedura che consiste nella caratterizzazione ambientale (analisi del terreno per verificare eventuali contaminazioni e/o inquinamento inquinamenti), e nell’eventuale bonifica della zona. Al termine della bonifica, l’area viene completamente rilasciata, non lasciando evidenza della precedente occupazione.

 

Quali sono i maggiori rischi che queste attività possono comportare?
Quali enti sono competenti a vigilare sull’ambiente?
Vengono previsti dei piani di monitoraggio ambientale?

I comparti ambientali che possono essere coinvolti dalle attività di estrazione e primo trattamento di gas e petrolio sono l’atmosfera, acqua e suolo.
Se gli impianti sono eserciti a regola d’arte e secondo le prescrizioni tecniche impartite dagli Enti competenti, l’impatto ambientale derivante dalle attività di estrazione è quello previsto nello studio d’impatto ambientale e ritenuto adeguato dalle autorità competenti (Ministero dell’Ambiente e Regioni). In caso contrario le attività sono sospese ed i luoghi sono ripristinati a spese dei titolari, che sono anche soggetti alle sanzioni previste dalla legge.
I principali enti competenti al controllo dei comparti ambientali sono le ARPA regionali (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente), organi tecnici presenti in ogni regione del territorio italiano, che, nello specifico, si occupano di verificare che i parametri chimico fisici degli impianti associati ai comparti ambientali rispettino i valori limite prescritti dalla vigente normativa in materia ambientale (una fra tutte il D.Lgs. 152/2006 e successive modifiche) e ai limiti imposti dai provvedimenti autorizzatori specifici di ogni impianto.
Per quanto concerne il Ministero dello sviluppo economico, è attivo all’interno dell’UNMIG un laboratorio chimico che, in relazione ai controlli legati alla salute dei lavoratori, svolge verifiche sulle emissioni derivanti dal trattamento del gas e del petrolio.
Nel caso in cui vengano superati i parametri di cui sopra, in ordine ad esempio a scarichi idrici od alle emissioni in atmosfera, in base a specifiche norme di legge il gestore dell’impianto incorre in sanzioni di carattere penale ed amministrativo e può anche essere disposta la chiusura dell’impianto alla produzione fino al ripristino delle condizioni di funzionamento regolare.

 

Se ci sono incidenti o sversamenti cosa deve fare l’azienda? Chi ne viene informato?

Nel caso ci siano incidenti/sversamenti l’azienda ha l’obbligo di legge di informare immediatamente dopo l’accaduto il Comune, la Provincia, la Regione, l’ARPA e le Sezioni UNMIG. Inoltre è tenuto a porre in essere tramite propri mezzi tutte le misure necessarie per evitare conseguenze all’ambiente circostante a seguito dell’incidente occorso secondo un piano di emergenza prestabilito.
Per quanto di loro competenza le Sezioni UNMIG (con sede a Bologna, Roma e Napoli) svolgono accertamenti per ricostruire cause e circostanze dell’incidente e verificare che le operazioni in corso in quel momento siano state svolte secondo le procedure di sicurezza previste, riferendone al magistrato nei casi previsti.
Le conseguenze principali per le aziende sono di tipo giuridico ed economico.
Relativamente al primo aspetto il titolare ed i responsabili della gestione dell’impianto, a seguito dell’accertamento delle specifiche responsabilità, sono soggetti alle sanzioni penali ed amministrative previste dalla legge comminate dalle Sezioni UNMIG.
Per quanto concerne il secondo aspetto, l’azienda può essere soggetta a sanzioni economiche oltre, ovviamente, a dover effettuare a proprie spese il totale ripristino della situazione “quo ante” l’accaduto.

 

Qual è il peso fiscale che grava su un’azienda che opera in Italia?

Il prelievo fiscale totale per le aziende italiane che operano nel settore delle attività estrattive e di produzione degli idrocarburi, si basa oltre che sulle royalties, sulla tassazione sui redditi delle società (IRES) con aliquota al 27,5%, sull’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) al 3,9%, sulla Robin tax, l’addizionale IRES introdotta nel 2008 ed aumentata nell’agosto 2011 fino al 10,5%.
Secondo un recente studio di Nomisma Energia complessivamente la tassazione in Italia sulle attività petrolifere è in media pari al 63,9%. Se inoltre si considera l’addizionale IRES del 4% introdotta con la l. 7/2009, il prelievo complessivo può salire fino al 68%.

 

Royalties. Cosa sono? A quanto ammontano?

Con il termine royalties si indica il pagamento di un corrispettivo allo Stato per poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali; esse sono quindi la remunerazione di diritti ceduti a terzi.
Con riferimento alle attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, esse sono applicate al valore della produzione. In Italia il sistema di prelievo fiscale sull’attività di esplorazione e produzione di idrocarburi combina royalties, canoni d’esplorazione e produzione, tassazione specifica e imposte sul reddito della società.
Nel nostro paese le royalties per le produzioni a terra sono attualmente del 10% (a seguito dell’incremento del 3% introdotto nel 2009), mentre per produzioni a mare è del 7% per il gas e del 4% per il petrolio, ed sono applicate sul valore di vendita delle quantità prodotte.
Il calcolo delle royalties dovute è effettuato in controvalore, calcolato sul prezzo dell’olio e del gas definito dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas per mezzo dell’indice QE (quota energetica costo materia prima gas) espresso in euro/GJ e calcolato per ciascun trimestre dell’anno di riferimento.
Le royalties per le produzioni di idrocarburi in terraferma sono ripartite per il 55% alle Regioni, il 30% allo Stato e il 15% ai Comuni. Tuttavia per le Regioni a statuto ordinario comprese nell’Obiettivo 1 (le regioni del Sud Italia tra cui la Basilicata, principale produttore italiano di petrolio) anche la quota del 30% dello Stato è assegnata direttamente alle Regioni.
Per le estrazioni offshore la suddivisione è per il 45% allo Stato e per il 55% alla Regione adiacente per le produzioni ottenute entro la fascia delle 12 miglia (mare territoriale), mentre oltre tale limite le royalties sono interamente dello Stato.
Il totale del gettito delle royalties nel 2011, sulle produzioni 2010, è stato pari a circa 276 milioni di euro dei quali circa la metà sono andati a beneficio delle Regioni (127,8 milioni di euro), allo Stato (circa 74 milioni di euro), ai Comuni (circa 19 milioni di euro) ed al Fondo di riduzione del prezzo dei carburanti (55 milioni di euro, circa 49 dei quali distribuiti ai cittadini della Basilicata). Complessivamente la maggior parte delle royalties (166,07 milioni di euro) sono destinate alla Basilicata grazie alla produzione di un solo impianto posto in Val D’Agri.
Come sopra illustrato, le somme raccolte dallo Stato, tramite versamenti da parte degli operatori al Ministero dell’economia e delle finanze, vengono in massima parte distribuite tra le Regioni e i Comuni interessati dalle attività di estrazione degli idrocarburi secondo quanto stabilito dal decreto legislativo n.625/1996 e dalle leggi n.140/1999, n.99/2009 e n.152/2006.

 

Qual è la situazione negli altri Paesi europei?

Innanzi tutto occorre premettere che non è semplice confrontare il regime delle royalties dei diversi Paesi produttori di petrolio in quanto esso non è uniforme. Si pensi ad esempio che uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo, la Norvegia, ha abolito le royalties a partire dal 1986 ma in compenso nel complesso applica una elevata tassazione alle aziende che svolgono attività estrattive.
Confrontando la tassazione italiana legata alle attività di estrazione e produzione di idrocarburi (che include royalties ma anche altri “prelievi”) con quella di altri Paesi europei, essa risulta essere relativamente alta (è pari “in toto” al 63,9% secondo un recente studio di Nomisma Energia).
Quando si considera la tematica della tassazione occorre infatti analizzare numerosi parametri di confronto quali, ad esempio, la produzione totale di idrocarburi, la redditività degli investimenti ed il “time to market” dei progetti legato alle tempistiche delle fasi autorizzative.
Gli Stati con maggiore prelievo fiscale sono in genere quelli con più alta produzione, alta redditività ed elevato flusso di investimenti ed occupazione nel tempo.
In Italia la produzione è ridotta rispetto ad altri Stati, la redditività contenuta con investimenti rallentati, i tempi autorizzativi molto lunghi (in media nove anni) ma la pressione fiscale è relativamente alta.
Paesi con più elevata tassazione rispetto all’Italia (es: Norvegia e UK, con prelievi fiscali in media, rispettivamente, del 78% e tra il 68 e l’82%), hanno al contempo una produzione più alta (in UK circa 6 volte maggiore dell’Italia, in Norvegia circa 20 volte), alta redditività degli investimenti, minori tempistiche (circa 4 anni) in ordine all’ottenimento delle autorizzazioni (Dati Nomisma Energia 2012 – Tassazione della produzione di gas e petrolio in Italia: un confronto).